Venezia 81. Vermiglio, di Maura Delpero, Leone d’Argento a Venezia e candidato all’Oscar
Vermiglio concorrerà per la shortlist dei 15 migliori film internazionali selezionati dall’Academy® che sarà comunicata il 17 dicembre 2024
Il film Vermiglio di Maura Delpero è stato designato – tra i 18 titoli italiani che erano in lizza – a rappresentare l’Italia agli Oscar 2025. La commissione scelta da Francesco Rutelli, presidente dell’Anica, ha motivato la scelta di Vermiglio così: “per la sua capacità di raccontare l’Italia rurale del passato, i cui sentimenti e temi vengono resi universali e attuali”.
L’annuncio delle nomination, dei cinque film destinati a concorrere al premio, è previsto per il 17 gennaio 2025. La cerimonia di consegna degli Oscar® si svolgerà a Los Angeles il 2 marzo 2025.
Vermiglio racconta l’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale in una grande famiglia e di come l’arrivo di un soldato rifugiato porta scompiglio e si perde la pace, nel momento stesso in cui il mondo la ritrova. Così la regista e sceneggiatrice racconta: “Una storia d’alta quota, con i suoi muri di neve. Di odore di legna e latte caldo nelle mattine gelate. Con la guerra lontana e sempre presente, vissuta da chi è rimasto fuori dalla grande macchina […] Vermiglio è un paesaggio dell’anima, un “Lessico famigliare” che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per mio padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese”.
Il film, con un’ambientazione suggestiva tra le montagne trentine, narra la vita nel 1944 a Vermiglio. Un piccolo villaggio di montagna (ultimo comune della val di Sole) dove è nato il padre della regista, al quale ha reso omaggio. In questo remoto paesino vive la famiglia del maestro di scuola Cesare (Tommaso Ragno). Una famiglia numerosa con una decina di figlie e figli, altri parenti, mucche e galline. In una baita è nascosto un disertore siciliano di cui Lucia, la figlia più grande del maestro, si innamora.
Passano i mesi e Lucia si sposa ed è incinta del soldato. Sembra una storia a lieto fine ma quando lei partorirà, il marito correrà in Sicilia e non tornerà più.
La regista mette a fuoco la quotidianità di questa comunità, con le sue gioie, delle sue grandi fatiche, amarezze, e speranze. Un set sicuramente impegnativo (i monti innevati, gli interni freddi, gli inverni duri da affrontare) dove si muove una famiglia patriarcale, ma è sembrato un esercizio di realismo che non sempre ha convinto.
Una vita scandita dal lavoro e rituali antichi. Qualcuno ha proposto l’accostamento all’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, ma in Vermiglio manca la poesia, l’atmosfera rarefatta, lo sguardo affettuoso e lirico con cui Olmi filmava gli umili lavoratori della terra. La Delpero intende ritrarre la cruda realtà della montagna, con i suoi tempi prolungati e rallentati, a volte estenuanti. La serialità dei gesti e delle azioni oltretutto diluita appesantisce e rende meccanicistico quello che nelle intenzioni vuole essere “realismo”.
Reale è il patriarcato, la sottomissione delle donne che “governavano” ma solo tra le mura domestiche finché il padre/marito non rientrava. Eppure Cesare (Tommaso Ragno) è un insegnante, ma non è alieno dal contesto patriarcale e maschilista. Per un attimo sembra aprirsi offrendo la possibilità di continuare gli studi alla più promettente delle sue figlie, ma sembra una concessione che comunque colloca gli altri figli nei ruoli codificati.
Un meccanismo sempre uguale e immodificabile che determina per le donne una condizione di prigionia fisica e psicologica, che non lascia spazio al libero arbitrio. Una piccola comunità e un paesino che fanno vivere una dimensione claustrofobica, seppure immersi in uno spazio naturalistico aperto che sembra evocare aria tersa e un territorio senza confini.
Ma oltre i monti c’è l’altra protagonista invisibile del film: la guerra. Questa è fuori campo ma si respira nel villaggio fino a deflagrare nella comunità. In questo il film è attuale: siamo accerchiati da tanti conflitti “fuori campo”, guerre e morti oltre i confini. Così prima o poi la guerra arriva anche in questo sperduto paese di montagna: due soldati fuggiaschi diventano ospiti della comunità. Stranieri perché arrivano dalla lontana Sicilia.
Così la comunità si interroga se è giusto ospitare dei disertori. Nella locanda un anziano afferma “che scappare dalla guerra è proprio da vigliacchi”. Ma nel passaggio più bello del film Cesare (insegnante ma patriarca incontestabile in casa) replica: “Forse, se fossero tutti vigliacchi, non ci sarebbero più guerre. La vigliaccheria è un concetto relativo”. L’affermazione, così rivoluzionaria, anticonformista e attuale, sembra fuori contesto, quasi che la regista abbia voluto esprimere il suo pensiero.
La scelta indovinata di dialoghi in dialetto evidenzia come come in Trentino e in Sicilia si parlassero “lingue” diverse e quella straniera fosse proprio l’italiano.